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a cura di Gugliemo Formisano
Eravamo all’inizio degli anni sessanta, gli anni della ricostruzione, della Lambretta e della Seicento, del primo governo di centro-sinistra, quarto di Amintore Fanfani, composto da DC, PSDI e PRI, della tregua sociale e del miracolo economico, dei miti USA che varcavano l’Oceano (Joan Baez, il pacifismo, Bob Dylan) e di Sofia Loren che conquistava, prima attrice non americana, l’Oscar per “La ciociara”, gli anni dei flipper e dei juke-box, di Antonio Segni Presidente della Repubblica, del debutto dei Rolling Stones, di James Bond, di Diabolik e di Spiderman che, con le sue ragnatele e la sua tuta rossoblé, sfrecciava tra gli avveniristici grattacieli di New York, della scomparsa di Marilyn Monroe e di Enrico Mattei, gli anni delle grandi vittorie in Coppa dei Campioni del Milan e dell’Inter Euromondiale. Anche a Scafati, di riflesso, si viveva il “boom”, con la Scafatese che, nel 1961/62, militava nel Campionato di Serie D per il secondo anno consecutivo, dopo aver sfiorato, nel 1959/60, il Titolo di Campione d’Italia Dilettanti, perso in finale, alla monetina, contro la Ponziana di Trieste. Il Presidente era Ugo Romano, industriale nel settore dei guanti (ancora oggi tutti ricordano la “Romanguanti”), che aveva affidato la panchina a Galli. Dopo otto partite non del tutto entusiasmanti (2 vittorie, 2 pareggi e 4 sconfitte), la svolta: a guidare i canarini fu chiamato Bruno Pesaola, soprannominato il Petisso (il Piccoletto) per la sua bassa statura (165 cm), al suo esordio in panchina.
Pesaola, che predicava il calcio all’italiana, con il libero staccato e, nell’ottica di un protagonismo diffuso, con un’organizzazione alla continua ricerca di spazio, gioco, idee ed emozioni, impresse subito il suo marchio, con questa formazione: Panza, Fontana, Ferulli, Carotenuto, Regis, Settembrini, Del Duca, Cinque, Di Pietro, Bellomo, Imparato; il Petisso guidò la Scafatese per 10 incontri (5 vittorie, 4 pareggi e 1 sconfitta, con 1 sola rete subìta), precisamente dalla nona giornata del 20/11/1961, contro l’Acquapozzillo, alla diciottesima del 28/01/1962, contro l’Atripalda (due 0-0 in trasferta), indossando sempre il suo tipico cappotto di cammello, considerato un portafortuna; a questo punto della stagione, però, il Commendator Romano interruppe il rapporto con l’allenatore concedendogli di andare ad allenare il Napoli, che navigava in cattive acque in Serie B (squadra alla quale Pesaola era legato e nella quale aveva militato per otto anni come calciatore), ricevendo in cambio sette milioni come rimborso dal Presidente Achille Lauro (corrispondenti all’ingaggio già versatogli dalla Scafatese). I gialloblè vennero affidati prima a Settembrini e poi a Boerio e, come l’anno prima, si piazzarono sesti nella classifica finale. Dal canto suo Pesaola riuscì a trasportare il Napoli (da quart’ultimo) in Serie A e alla conquista della Coppa Italia; successivamente, nel 1967/68, condusse il Napoli per la prima volta al secondo posto, con Sivori e Orlando, Altafini e Barison, Canè, Juliano e Zoff in porta. L’anno seguente, nel 1968/69, costruì il suo capolavoro, il secondo scudetto della Fiorentina, squadra sentimentale e ribelle, che mancava dal 1955/56, ancora oggi l’ultimo vinto dai viola. Nel 1973/74, poi, ancora una vittoria nella Coppa Italia, con il Bologna. Da Buenos Aires, dove era nato il 28 luglio 1925, era arrivato ventiduenne, figlio di un calzolaio di Macerata e di una galiziana; uomo di mondo, come lo avrebbe definito Totò, era amico di Carlo Dapporto, di Renato Rascel e di Walter Chiari; gli aneddoti che regalava alla sua corte notturna di giocatori di poker e compagni di nicotina e di whisky senza ghiaccio, al Vomero, al Ristorante “Il ragno nero”, si dividevano tra quelli veri e quelli verosimili, come lo schiaffo dato a un compagno che aveva osato fare tunnel a Schiaffino; i ragazzini gli chiedevano: ma quanti gol hai segnato? E lui, ricordandone uno contro l’Inter, nell’angolo alto alla destra di Matteucci (5 gennaio 1958, giornata 16, Inter-Napoli 0-1, 79’ Pesaola), che era diventato la sigla della Domenica Sportiva per più di mille puntate, rispondeva: “Più di mille, come Pelè”. La sua voce era simile a una filastrocca argentina; tra le sue battute più celebri: “Ero più grande di Maradona. Di un centimetro” e, in seguito a un Bologna-Atalanta tutto in difesa dopo aver promesso un calcio offensivo: “Ci hanno rubato l’idea”.
I tifosi della Scafatese, quelli meno giovani che lo hanno conosciuto e coloro che ne hanno sentito parlare, lo descrivono come un uomo arguto, dalla creatività inesauribile, dalle espressioni irresistibili, dalla saggezza sorridente e dalla grande sapienza calcistica (coltivata, all’inizio della sua carriera da allenatore, sul nuovo stadio dei canarini). Per Pesaola, il Piccoletto dal grande ingegno, la morte era la “porta nera”; nel giorno della sua scomparsa, della scomparsa dell’ultimo showman del calcio italiano, a 89 anni, il 29 maggio 2015, Gianni Mura lo ricordò così: “Un ultimo saluto affettuoso, triste-allegro, come lui avrebbe voluto, a Bruno Pesaola: un whisky senza ghiaccio e una sigaretta. Ora che hai passato la porta nera, guarda che luna, Petisso. Guarda che mare”.
Gugliemo Formisano
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